Stressato per il Lavoro? quando si può parlare di risarcimento?
La Corte di Cassazione ha quantificato il risarcimento dei danni causati da stress lavorativo e la sua grande responsabilità.
L’attività lavorativa è spesso fonte di notevole stress per il dipendente, il quale talvolta può sentirsi pervaso da uno stato di ansia, di frustrazione, di irritabilità, dalla brutta sensazione di non essere all’altezza delle aspettative. Le conseguenze dello “stress da lavoro” possono essere molto dannose.
Come tutela la legge il lavoratore stressato?
È possibile agire per vie legali, chiedendo ed ottenendo al datore di lavoro un risarcimento per causa di servizio?
Quando lo stress da lavoro può essere considerato una malattia professionale?
Quando i ritmi lavorativi possono causare una malattia cronica?
Rispondiamo a queste domande.
Talvolta lo stress può essere così intenso da causare una vera e propria malattia cronica, con sintomi che non si risolvono e non migliorano con il passare del tempo e con i quali il lavoratore è costretto a convivere. Lo stress, da cui scaturisce la malattia cronica, può derivare da uno sproporzionato carico di responsabilità, da una programmazione inadeguata delle varie attività aziendali, da un ambiente lavorativo caratterizzato dalla presenza di rimproveri e pressioni psicologiche, dove regna sovrana la conflittualità non solo tra i colleghi ma anche tra questi e il capo.
Quali sono gli obblighi del datore di lavoro?
Secondo la legge [Art. 2087 Cod. Civ.], l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica. Ma in cosa consistono queste misure? La Cassazione [Cass., sent. n. 5491del 2 maggio 2000.] ha precisato che l’obbligo del datore di lavoro non si limita esclusivamente al rispetto della legislazione in tema di prevenzione, ma si estende anche al divieto di porre in essere comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore all’interno dell’azienda.
Danno da usura psico-fisica
La Cassazione si è espressa, in più di un’occasione, sul cosiddetto danno da usura psico-fisica causato dall’attività lavorativa. L’orientamento che prevale presso i giudici della Suprema Corte è quello di considerarlo “danno non patrimoniale“, risarcibile ai sensi di legge [Art. 2059 Cod. Civ.]. Tale danno va risarcito quando il datore di lavoro abbia omesso di apprestare tutte le cautele necessarie per garantire l’integrità fisica e morale dei dipendenti.
Danni da lavoro stressante: chi deve provarli?
E’ il lavoratore che deve provare la violazione degli obblighi contrattuali di tutela dell’integrità psico-fisica nonché il nesso di causualità tra lo stress da lavoro e l’insorgere della malattia cronica [Cass., sent. n. 10527 del 13 maggio 2011; Cass., sent. n. 13614 del 21 giugno 2011.]. Il lavoratore può avvalersi di presunzioni semplici. Queste ultime, secondo quanto stabilito dal legislatore [Art. 2729 Cod. Civ.], sono quelle lasciate alla prudenza del giudice. Affinché possa essere riconosciuto valore giuridico alla presunzione semplice, gli elementi presi in considerazione dal lavoratore devono essere gravi, precisi e concordanti: devono cioè essere in grado di lasciar apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, in base a regole di esperienza [Cfr. Cass., sent. n. 1185 del 18 gennaio 2017; Cass., sent. n. 14115 del 20 giugno 2006]. Onere del datore di lavoro è quello di fornire prova contraria, che non può consistere nel mero concorso di colpa del lavoratore: si deve dimostrare che il dipendente abbia tenuto un comportamento doloso o abbia generato un particolare rischio a causa del compimento di un’attività non rientrante nei doveri lavorativi o che va al di là degli stessi.
La recente sentenza della Cassazione
È di pochi giorni fa la sentenza [Cass., sent. n. 24361 del 16 ottobre 2017.] con cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per causa di servizio al lavoratore a cui era stato diagnosticato un forte scompenso cardiaco a livello coronarico. Il dipendente aveva avuto l’incarico di rappresentare in giudizio la propria azienda pubblica e ciò aveva ingenerato in lui un forte stato di stress. Ma cosa ha spinto i giudici della Suprema Corte a riconoscere il rapporto causa-effetto tra la frenetica attività lavorativa svolta e il sorgere della malattia? L’assenza di altre cause plausibilmente in grado di provocare questo grave scompenso: il lavoratore, infatti, aveva solo trentasei anni (troppo giovane per soffrire della patologia in oggetto!), non faceva uso di fumo né era dedito all’alcol, nella sua famiglia non vi erano precedenti di malattie cardiache. In questi casi al lavoratore viene fornita tutela dall’assicurazione obbligatoria sul lavoro, dall’Inail e dall’azienda presso cui presta servizio.
Fonte: La legge per tutti