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È valida la diffida inviata dall’avvocato o organo di competenza stragiudiziale all’assicurazione a seguito del mandato ricevuto dal minorenne ferito a seguito di un incidente stradale.

Se in seguito ad un incidente stradale un minore ha riportato ferite è lecito che dovrà richiedere il risarcimento del danno all’assicurazione.

Quest’ultimo non ha bisogno di essere autorizzato dai genitori nella nomina di un avvocato o consulente stragiudiziale, ma può delegare il mandato ad una figura competente da lui stessa scelta anche se minore.
È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente ordinanza [Cass. ord. n. 24077/17 del 13.10.2017].

In altri termini, secondo la Corte, in caso di incidente stradale, il minore può delegare una figura competente per il risarcimento.

È valida la messa in mora per il risarcimento del danno avanzata dall’avvocato o consulente stragiudiziale all’assicurazione in forza del mandato conferito dal minorenne. Anche se questi non ha ancora compiuto 18 anni, infatti, ha la capacità di compiere atti giuridici in senso stretto purché non gli provochino pregiudizio.

Secondo la sentenza in commento, «in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione stradale, la richiesta di risarcimento del danneggiato all’assicuratore del danneggiante, a mezzo di lettera raccomandata, quale condizione di proponibilità dell’azione risarcitoria contro l’assicuratore [Ex art. 22, l. n. 990/69] integra un atto giuridico in senso stretto e non un atto negoziale».
Al minore di età sono preclusi tutti quegli atti che comportino la perdita di un diritto o l’assunzione di un obbligo. Atteso che dalla richiesta di risarcimento non derivano per il minore effetti sfavorevoli, essendo rivolta all’acquisto e alla salvaguardia del diritto al risarcimento dei danni da responsabilità civile automobilistica, questi certamente sarà senza dubbio capace di conferire mandato a un avvocato. Il minore è capace di porre in essere atti giuridici in senso stretto e quindi atti che costituiscono il presupposto di determinati effetti giuridici ad essi ricollegati dalla legge, per il relativo compimento non essendo richiesta la capacità di agire.

La cassazione conferma l’indirizzo già espresso più volte secondo il quale il gestore dell’autostrada è responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i fatti che accadono agli utenti, poiché in capo ad esso è riconoscibile il potere di custodia della cosa, che si estende anche alle sue pertinenze.

Nel caso in cui un animale selvatico salti la rete di recinzione ed essa rimanga pertanto integra, il custode è comunque responsabile in quanto risulta evidente che la protezione approntata si è rivelata insufficiente ad evitare il pericolo.

Così i Giudici del Palazzaccio: “In funzione dell’interruzione del nesso causale tra l’evento dannoso e la cosa in custodia, il giudice del merito non poteva invece valorizzare la circostanza relativa all’integrità della recinzione nel tratto autostradale interessato dall’incidente, sia perchè tale circostanza, nel caso concreto, non aveva impedito alla cosa di esplicare comunque la propria potenzialità dannosa, sia perchè essa, lungi dal costituire caso fortuito, confermava piuttosto che il danno non era stato determinato da un fattore esterno imprevedibile ed inevitabile idoneo a vincere la presunzione di responsabilità del custode, ma era stato piuttosto la conseguenza dell’inefficace esercizio, da parte sua, dei poteri di sorveglianza della cosa.”

Di seguito la sentenza:

Roma, Camera di Consiglio, della Sez. III Civile, Sentenza del 22 marzo 2017

La Corte di Cassazione ha quantificato il risarcimento dei danni causati da stress lavorativo e la sua grande responsabilità.

L’attività lavorativa è spesso fonte di notevole stress per il dipendente, il quale talvolta può sentirsi pervaso da uno stato di ansia, di frustrazione, di irritabilità, dalla brutta sensazione di non essere all’altezza delle aspettative. Le conseguenze dello “stress da lavoro” possono essere molto dannose.

Come tutela la legge il lavoratore stressato?
È possibile agire per vie legali, chiedendo ed ottenendo al datore di lavoro un risarcimento per causa di servizio?
Quando lo stress da lavoro può essere considerato una malattia professionale?
Quando i ritmi lavorativi possono causare una malattia cronica?

Rispondiamo a queste domande.

Talvolta lo stress può essere così intenso da causare una vera e propria malattia cronica, con sintomi che non si risolvono e non migliorano con il passare del tempo e con i quali il lavoratore è costretto a convivere. Lo stress, da cui scaturisce la malattia cronica, può derivare da uno sproporzionato carico di responsabilità, da una programmazione inadeguata delle varie attività aziendali, da un ambiente lavorativo caratterizzato dalla presenza di rimproveri e pressioni psicologiche, dove regna sovrana la conflittualità non solo tra i colleghi ma anche tra questi e il capo.

Quali sono gli obblighi del datore di lavoro?

Secondo la legge [Art. 2087 Cod. Civ.], l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica. Ma in cosa consistono queste misure? La Cassazione [Cass., sent. n. 5491del 2 maggio 2000.] ha precisato che l’obbligo del datore di lavoro non si limita esclusivamente al rispetto della legislazione in tema di prevenzione, ma si estende anche al divieto di porre in essere comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore all’interno dell’azienda.

Danno da usura psico-fisica

La Cassazione si è espressa, in più di un’occasione, sul cosiddetto danno da usura psico-fisica causato dall’attività lavorativa. L’orientamento che prevale presso i giudici della Suprema Corte è quello di considerarlo “danno non patrimoniale“, risarcibile ai sensi di legge [Art. 2059 Cod. Civ.]. Tale danno va risarcito quando il datore di lavoro abbia omesso di apprestare tutte le cautele necessarie per garantire l’integrità fisica e morale dei dipendenti.

Danni da lavoro stressante: chi deve provarli?

E’ il lavoratore che deve provare la violazione degli obblighi contrattuali di tutela dell’integrità psico-fisica nonché il nesso di causualità tra lo stress da lavoro e l’insorgere della malattia cronica [Cass., sent. n. 10527 del 13 maggio 2011; Cass., sent. n. 13614 del 21 giugno 2011.]. Il lavoratore può avvalersi di presunzioni semplici. Queste ultime, secondo quanto stabilito dal legislatore [Art. 2729 Cod. Civ.], sono quelle lasciate alla prudenza del giudice. Affinché possa essere riconosciuto valore giuridico alla presunzione semplice, gli elementi presi in considerazione dal lavoratore devono essere gravi, precisi e concordanti: devono cioè essere in grado di lasciar apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, in base a regole di esperienza [Cfr. Cass., sent. n. 1185 del 18 gennaio 2017; Cass., sent. n. 14115 del 20 giugno 2006]. Onere del datore di lavoro è quello di fornire prova contraria, che non può consistere nel mero concorso di colpa del lavoratore: si deve dimostrare che il dipendente abbia tenuto un comportamento doloso o abbia generato un particolare rischio a causa del compimento di un’attività non rientrante nei doveri lavorativi o che va al di là degli stessi.
La recente sentenza della Cassazione

È di pochi giorni fa la sentenza [Cass., sent. n. 24361 del 16 ottobre 2017.] con cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per causa di servizio al lavoratore a cui era stato diagnosticato un forte scompenso cardiaco a livello coronarico. Il dipendente aveva avuto l’incarico di rappresentare in giudizio la propria azienda pubblica e ciò aveva ingenerato in lui un forte stato di stress. Ma cosa ha spinto i giudici della Suprema Corte a riconoscere il rapporto causa-effetto tra la frenetica attività lavorativa svolta e il sorgere della malattia? L’assenza di altre cause plausibilmente in grado di provocare questo grave scompenso: il lavoratore, infatti, aveva solo trentasei anni (troppo giovane per soffrire della patologia in oggetto!), non faceva uso di fumo né era dedito all’alcol, nella sua famiglia non vi erano precedenti di malattie cardiache. In questi casi al lavoratore viene fornita tutela dall’assicurazione obbligatoria sul lavoro, dall’Inail e dall’azienda presso cui presta servizio.

Fonte: La legge per tutti

Il Tribunale si è pronunciato su un caso riguardante la richiesta di risarcimento di un uomo verso il proprietario di un cane che, urtandolo, lo faceva cadere e gli procurava la frattura di una gamba.

Il danneggiato aveva chiamato a sè il cane per offrirgli dei biscotti. Tale circostanza, secondo il Tribunale, ha contribuito a provocare una reazione di eccessiva esuberanza del cane, manifestatasi “nella corsa verso l’oggetto del desiderio, al fine di recuperarlo ed esprimere la propria gratitudine, che ha causato l’urto”. La manifestazione di affetto del cane, secondo il giudice, può avvenire anche in maniera sproporzionata e imprevedibile.

Pertanto il pregiudizio viene addebitato esclusivamente al danneggiato in quanto “egli stesso ha dato avvio al processo eziologico dal quale è derivato il sinistro” ritenendo che la responsabilità del proprietario del cane ex art. 2052 c.c. non può estendersi fino a corprire anche gli atti volontari posti in essere dal danneggiato.

Di seguito la sentenza:

Tribunale di Milano, sez. X Civile, sentenza del 5 giugno 2017, n. 6345

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